Chi addomestica il cuore

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Tra i miei registi preferiti: Roman Polanski.

Si cimenta in un film complesso, chiamato Carnage, sul processo educativo occidentale.

L’(in)educazione degli adulti, non dei giovani.

Ci troviamo in un appartamento a New York City, in compagnia dei coniugi Cowen e dei coniugi Longstreet. Le due coppie si incontrano perché il figlio undicenne dei Cowen ha rotto i denti al figlio undicenne dei Longstreet, con l’accusa di essere uno spione.

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L’antefatto è banale: Kate Winslet e Christoph Waltz, che interpretano i Cowen, vanno a scusarsi a nome del figlio da Jodie Foster e John Reilly, i coniugi Longstreet.

Tutto inizia con sorrisi (finti), comprensione (finta), voglia di lasciarsi alle spalle l’imbarazzante situazione.

Pian piano, dai dialoghi esce la vera anima dei protagonisti, il political correct si infrange di fronte alla realtà, spalancando la personalità delle due coppie, da qui una serie di eventi catastrofici. “Oggi è il giorno più infelice della mia vita”, ripetono in fasi diverse i quattro sventurati.

Meravigliosa l’abilità del regista nel dipingere il contesto ma sopratutto le dinamiche dei protagonisti, che a momenti litigano, a momenti si alleano, studiandosi reciprocamente (4 stati d’animo che si muovono in un unico ambiente, come fosse un opera teatrale).

Ecco chi sono.

Penelope Longstreet: liberal, saccente, buonista, maestrina, sofisticata.

“Un inferno viverci insieme” dichiara sconsolato il marito, dopo aver bevuto mezza bottiglia di whisky.

E’ lei, con il suo modo di porsi, ad accendere gli odi reciproci ed incrociati.

Michael Longstreet: marito di Penelope, ferocemente nichilista, è il contrario di Penelope. Si sforza di apparire democratico (nel senso di sinistra) e “open mind”, dopo solo venti minuti di recita perde le staffe, maledicendo il giorno in cui i figli vengono al mondo.

Alan Cowen: cinico e rampante, è un uomo d’affari. Rimane indifferente all’atto di violenza del figlio, verso cui non prova responsabilità nè educative nè affettive. “Sono votato al Dio del massacro” è la sua frase chiave, confermando il bisogno di predominio sugli affari e null’altro.

Nancy Cowen: donna in carriera, sull’orlo perenne di una crisi di nervi. Celando la disperazione nell’inseguire gli impegni di lavoro, del figlio e del marito, dopo sessioni di pianto e conati di vomito, ribadirà l’infelicità della sua vita. Vivere con un marito e un figlio del genere.

Il processo educativo diviene assente, quando i quattro protagonisti si tolgono la patina di rappresentabilità.

Nulla è diverso dalle belve che girano nelle foreste, come se Polanski avesse il dono di mostrarci non come “esseri disumani”, ma appartenenti a specie diverse, ognuno con specifiche aggressività, fortemente represse o addomesticate.

Basta un litigio tra ragazzini, qualche bicchiere di whisky, e la comunicazione civile è smarrita.

Un film che, tra le altre cose, è un atto d’accusa contro il buonismo castrante di sinistra, che vorrebbe incatenare quelle emozioni che non ama, reprimendole.

Con il risultato opposto di farle deflagrare in furia e in rabbia incontrollata (epico il finale dello scambio di battute tra la Winslet e la Foster)

Ha ragione Polanski: essere noi stessi fa meno paura che essere prodotti di una civiltà infelice e stereotipata.

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