“Ho fatto a pezzi mio figlio”

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“Ho fatto a pezzi mio figlio”. Questa è la sconcertante conclusione, a cui una donna arriva, narrandosi in un giornale femminile.
Da qui le mie riflessioni.
Questa donna, che per convenienza chiameremo Thana, non è pazza, neppure assassina. Almeno non per la società. Come lei ce ne sono tante, nascoste, invisibili, nei paesi e nei tessuti urbani.
Lo stato di diritto (ma quale?) sancisce che abbia semplicemente attuato una scelta. Quella dell’aborto volontario.
Nonostante sociologi e psicanalisti (di cultura radical-chic), si affannino a giustificarla, anzi incitandola a sentirsi orgogliosa, la coscienza di Thana morde, fino a mangiargli il cuore, urla forte un accusa: “Assassina di tuo figlio!”.

 

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Per un giorno di sole, una giornata di shopping, per mantenere le apparenze (la carriera o la forma fisica), Thana decide di trasformarsi in aguzzina invece che madre, sterminatrice invece che portatrice di vita.
Non sia nessuno a giudicarla, lei ad altre milioni di donne, “madri dell’aborto”.
Presto o tardi sarà la coscienza di sè ad emergere, a ricordare loro l’atto di morte compiuto, a discapito di un gesto d’amore.
Non esiste terapia, attitudine o addestramento per liberarsi di un peso tanto grave, come se da quelle sale operatrici, dove si è compiuto l’assassinio, l’odore del disinfettante, il tintinnio dei ferri, penetrasse per sempre nelle menti di quelle donne. Per vendicarsi. Perseguitarle.
Thana ci prova, a tornare a vivere. Spesso giustificandosi, dicendo a sè stessa di aver fatto la scelta giusta, di non aver avuto altra possibilità.
Per dimenticare, per rimuovere, pensa che qualsiasi cosa vada bene: cambiare partner, andare in giro, vivere distratta.
Appena un ballo fa girare la testa, un bacio sembra sincero, tutto tinge al rosso sangue. Per un istante.
Basta questo a soffocare la musica, ad avvizzire il bacio, a proiettare Thana in un antro. La donna vede lei, Quella, con orbite vuote, fissa la donna.
La morte non è mai sazia di scrutare chi confida in essa; specie se chi l’invoca dà in sacrificio il proprio figlio in grembo.
Thana, rigettando la vita, accoglieva per il resto dei suoi giorni la muta figura che non è nè madre nè protettrice.
Quale legge può dirsi giusta se, applicata, aggredisce e sconvolge la mente delle donne?
Quale diritto è quello che uccide e sacrifica i mai nati, nel nome della libertà personale, dell’individualismo, del progresso scientifico?
Cullando il bimbo delle donne che scelgono l’omicidio, la muta figura si accosta a Thana, una delle tante mamme carnefici di sè stesse; con occhi innocenti il bambino guarda colei che lo tiene in braccio, poi riconosce la madre, che non lo ha voluto nemmeno in vita.
Si osservano reciprocamente, madre e figlio, senza capire, senza abbracciarsi.
Chi può odiare una madre e un figlio, tanto da infliggergli una pena così crudele? Eppure esiste.
Dietro il dito della legge, del diritto, si nascondono i sicari dei bimbi. Promotori di morte per mandato delle stesse madri.

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