::cck::167::/cck::
::introtext::
Pubblico l’interessante punto di vista di un amico, che riguarda coloro che si occupano di creatività, comunicazione, messa in posa delle idee, per farle divenire concretezza.
E’ un tema, chi più, chi meno, che coinvolge tutti. La creatività non è solo quella dei cosiddetti artisti, ma di ogni comunità che abbia in mente un opera e irriducibilmente vuol portarla a compimento. L’ “horror vacui” è il senso di vuoto che spesso caratterizza la decisione di FARE. Da uno stato di quiete, ci si volge al nuovo e si intraprende il cammino per portarlo a termine. Spesso il momento del prendere una decisione si associa ad un esperienza (chiamata orrorifica, appunto) di vuoto pneumatico: attraverso la creazione muore uno stato di sè e rinasce immediatamente, arricchito dall’esperienza di aver generato qualcosa. Quella “piccola morte”, se non affrontata da un metodo che ci ricordi chi siamo e cosa vogliamo, può diventare molto dolorosa.
Voglio citare la frase del Gius, quando ammonisce: “Non siate mai tranquilli“. La sua è un autentica esortazione a verificare la capacità di ognuno di creare, reinventarsi, di allontanarsi da una quiete che non è mai fruttuosa. Anche se essa è dolce come il miele.
Federico Bason
::/introtext::
::fulltext::
In un testo da leggere e rileggere, Tracce d’esperienza cristiana, don Giussani osserva: “Per incontrare Cristo, quindi, dobbiamo innanzitutto impostare seriamente il nostro problema umano”.
Qui si dice: “il nostro problema umano”, non quello generale, che rischierebbe di affratellarci agli illuministi, per i quali esiste l’Umanità astratta, ma non il corposo e visibile vicino della porta accanto. Dunque: l’Umanità come categoria generale, ma non l’io che ci guarda e ci domanda attenzione.
Il “nostro” problema umano, dunque. Il mio problema umano. Don Carron ci sta aiutando a cogliere, passo dopo passo, in un vero e proprio percorso, i tratti concreti, rintracciabili nell’esperienza, del nostro volto umano: dalla vita come vocazione all’attesa, come struttura fondamentale dell’essere-nel-mondo. E’ il nucleo dal quale partire, per porci una domanda: se il mio problema umano -dunque il mio desiderio di amare ed essere amato, di essere quel che sono e di aiutare gli altri, che mi sono vicini, a fare altrettanto – è fatto di questa materia così tangibile, perché io, quando decido e vivo, mi sento immerso in una specie di calotta vuota? Perché la paroletta “crisi” sta invadendo così brutalmente ed estensivamente la mia testa e il mio cuore, fino al punto di non ascoltare più le indicazioni giuste ed adeguate della mia compagnia di amici, ma i media, i soloni di turno, gli analisti tutti rigorosamente sistemati nell’establishment e dunque interessati a chiacchierare di apocalissi prossime venture, ad uso e consumo dei padroni di turno? Perché?
Un’ipotesi da considerare: io non riesco a metabolizzare quel fenomeno complesso che si chiama “horror vacui”, paura del vuoto – del mio vuoto – e che, in realtà, si accosta al fenomeno dell’attesa che, come ha richiamato Carron, lascia in noi un tedio, un fastidio miracoloso e fruttuoso, se adeguatamente letto e inscritto nel cammino di ogni giorno.
Mettiamola così: ogni decisione, in ogni istante, produce in noi uno scarto, perché quell’attesa viene come bruciata e, da questo movimento, nasce qualcosa di nuovo. Qualcosa di nuovo che fa morire quel precedente passo dal quale siamo partiti, e ciò produce un senso di vuoto, che dobbiamo stare attenti a riempire con la tensione alla verità di noi. E’ la Lettera ai Filippesi di questa Domenica di Quaresima: “Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta”, dice san Paolo. Perché? Ma perché – aggiunge – “anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo”. E Isaia, nella Prima Lettura: “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?”. “Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa”.
Quindi, nel deserto della mia vita, Dio crea una “cosa nuova”, a condizione che la mia libertà aderisca a questa proposta, che mi viene comunicata attraverso i fatti e i gesti della vita, nella compagnia che scalda la mia esistenza: così il vuoto diventa il “deserto”, cioè l’occasione di cui Dio si serve per fare una “cosa nuova”, creare una novità, permettendomi di salpare per un nuovo viaggio.
Seguendo questa pista, anche nel deserto, anzi soprattutto nel deserto dei miei giorni, vedrò spuntare l’alba di un nuovo giorno, proprio come spunta l’alba, a tappe, con discrezione e cura della mia vista, educandomi ad aprire le serrande per incontrare una “cosa nuova”, quel nuovo giorno, di cui ancora non so niente.
Se, da un lato, dunque, l’ orrore del vuoto è un fatto naturale e del tutto umano, dall’altro, è disumano affrontarlo facendoci trascinare nelle piazze del nulla dai media e dai nuovi cantori del potere dominante. Il vuoto è la premessa del pieno accolto come un dono e una fatica della nostra libertà. Ogni giorno.
Se non ci muoviamo così, siamo come tutti gli altri e cerchiamo la soddisfazione – come osservava Carron agli ultimi Esercizi della Fraternità – dove la cercano tutti gli altri. E’ questo il vero scacco dell’io, non tanto il vuoto, la noia, il deserto interiore. C’è un cammino da fare attraverso il deserto, ecco perché questo è davvero il tempo della persona.
Seguire, dunque, è il passo della libertà; perché “bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima, eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata della luce; spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via” (T.S. Eliot).
Raffaele Iannuzzi
::/fulltext:: ::cck::167::/cck::