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Il futuro è quello che uno ha dentro. E Bianca, la protagonista del film, lo vede senza luce. In compagnia del fratello Tomas, vive la città di Roma, in solitudine, come unico contatto le amicizie un po’ “ruffiane”, di una palestra sotto casa.
A sorprendere, non è la descrizione della città, tipicamente pasoliniana, con il dialetto strascicato, quell’indolenza aggressiva, che porta i poveri a sottomettere altri poveri, anche solo per cinico divertimento, c’è di più: è la posizione espressa da Bianca, la sua realtà che non vuole affrontare, la sua condizione che non vuole vedere. Non ci sta a vivere in quel modo, nè da shampista, nè da prostituta.
Gli amici del fratello, Libio e Bolognes, accattoni in cerca di opportunità, vivono all’ombra di una palestra, coltivando muscoli e assumendo integratori, cercarsi un lavoro è tabù perfino parlarne.
Coinvolgono Bianca in un folle piano: derubare Maciste, un ex body builder in disarmo, con un passato di attore, che trascorre la vecchiaia in una solitudine dorata. Bianca, proponendosi come escort, sarebbe entrata in villa e avrebbe individuato la cassaforte.
Le scene di nudo, di sensualità, di Bianca che si offre all’anziano atleta non sono volgari. Costringono lo spettatore a soffermarsi sulla vera indecenza, quella che appartiene ai due spiantati (Libio e Bolognes) che non riuscendo a combinare nulla nella vita, svelano quanto sia falsa la loro amicizia.
E’ amore, quello che Maciste prova per Bianca oppure bisogno di compagnia? Perché insieme, a parte il sesso, non riescono ad essere felici?
La storia de “Il Futuro” comprende la difficoltà di vivere il quotidiano, di affrontare il domani con fiducia.
Da l’opportunità di comprendere chi sono i giovani, senza retorica. Scoraggiati, senza iniziativa, eppure disponibili alla redenzione, se colgono la mano di chi vuole soccorrerli.
La diversità radicale tra ambienti, la villa di Maciste e l’appartamentino di Bianca, sono accomunati dalla paura di osservare se stessi. Da una parte porte chiuse, mobili coperti, stanze silenziose, l’autodenuncia di aver paura del prossimo, di non accoglierlo e non sentirsi partecipi. Dall’altra la confusione di pentole, piatti, forchette da lavare, lo sporco, il disordine perenne, il castigo di percepire la propria vita senza nesso, senza ne capo e ne coda.
La riflessione di Bianca, sull’amore, si chiude con l’immagine del cielo, al tramonto. Triste, ma con uno stormo di gabbiani che attraversa lo schermo, quasi a perdonare il pessimismo. Perché la solitudine di una ragazza non deve essere l’ultima parola in questa vita.
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