Recensione de “La Quinta stagione”

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Cosa accadrebbe se la Natura d’improvviso smettesse di respirare? Se gli alberi marcissero, le bestie diventassero putride carcasse, i pesci annegassero nei fiumi e nei torrenti? Ecco l’incubo spalancarsi, con immagini sublimi, panorami tenui, colori pastellati, una fotografia che lascia stupefatti.

Definire La Quinta stagione (regia di Peter Brosens e Jessica Woodworth) un film del brivido oppure drammatico è semplicistico.

L’orizzonte su cui si sperimenta il film è intrecciato sull’ecologismo moderno (l’importanza dell’ecosistema) ma sopratutto sulla condizione dell’essere umano di dare tutto per scontato.

Finchè l’orologio biologico delle stagioni procede, la comunità rurale esiste, sorge tranquilla.

Le mucche al pascolo, le uova delle galline abbondanti, la terra feconda, infonde fraternità nel rapporto tra simili, il cosiddetto buon vicinato.

E poi, cosa accade? Sbocciano le lacrime, gli abbracci diventano minacciosi, la festa per una primavera imminente si trasforma in un sabba inquietante, fino al tragico epilogo.

Doveroso soffermarci sulla bravura del direttore della fotografia Hans Bruch Jr, che rimanda a visioni da cartolina, per suggerire una natura contemplativa ma anche inquietante, pronta a ribellarsi.

Tutto d’improvviso si spegne, l’ingranaggio della vita, così come lo conosciamo, è irrimediabilmente bloccato: muoiono animali, piante, la terra diventa sterile. Non esiste governo, dottore o sciamano che possa risolvere la questione, lentamente il buio richiama la paura, la desolazione inghiotte la ragione.

I protagonisti della storia, anonimi testimoni, sono costretti a comprendere che non sono loro a comandare, bensì gli elementi del fuoco, dell’acqua, della terra, le stagioni che calano una falce mortale, stroncando ogni speranza di vita.

L’apicoltore, il figlio disabile, il contadino, la ragazzina imbronciata sembrano vittime di qualcosa di grande, un destino impregnato di pianto, imprecazioni, urla contro il cielo che non vuole rivelare il perché di quella punizione.

La carne dell’uomo, priva del domani, di qualsiasi accenno di spiritualità, deperisce di fronte all’esperienza di impotenza.  

Una festa di paese, con le maschere e lo zucchero filato si avvelena, nel susseguirsi delle stagioni, nella ricerca dei colpevoli, la causa di quel cataclisma ecologico. Come in una moderna peste, di manzoniana memoria, gli uomini simili a formiche si accalcano nel raggiungere l’untorello, colui che, a loro dire, ha bisogno di purificazione, nel fuoco, perchè ha portato disgrazia. C’è divisione: chi cerca la morte, chi diventa uno spietato aguzzino.

L’immaginario tetro del La Quinta stagione saccheggia in pieno dalla fantasia dei videogiochi: la comunità con il volto coperto, da sacchi di juta e maschere accuminate, rimanda alle scene del famoso videogame Resident Evil 4, nel capitolo iniziale, dentro il villaggio dei contadini.

Ritroviamo la processione notturna, le fiaccole in pugno, l’altare sacrificale in paglia, l’offerta ad una misteriosa divinità pagana; nel film non è solo un espediente per far paura, analizza quanto sia facile per l’uomo perdere se stesso; se incapace di riflettere sulla realtà che lo circonda, raggiunge il culmine della follia.

La Quinta Stagione diventerà probabilmente un film di culto, sia per l’originalità della trama, sia perché aderisce al quel romanticismo antico, di stampo tedesco, sul rapporto dell’uomo nei confronti degli elementi naturali, che sanno atterrire con feroce bellezza. La moria di pesci, la terra dura e senza piante, gli alberi stecchiti che cadono uno dopo l’altro assumono i contorni di un grido smisurato, con cui i protagonisti fanno i conti, nella poesia dei gesti quotidiani (pulire fattorie oramai senza vita), nella sofferenza di non trovare un senso alla condizione attuale.

Il film è terminato: si accendono le luci in sala. Guadagnata l’uscita si torna all’aperto, viene spontaneo accorgersi che la vita è in movimento, tutto si muove con frenetica energia.

Dopo la visione di un film cupo come la Quinta stagione, viene naturale ringraziare Dio per ciò che ci vive intorno, e che non bisogna dare per scontato. Mai. 

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