Questo o altri articoli che scriverò su Silent Hill, non hanno la pretesa di definire il meccanismo dietro la storia, né di rinchiudere l’immaginazione estrema, che arde dentro la “città silente” (che oggi vive di vita propria).
Anche dare al lettore dei riferimenti è arduo: sono usciti e in uscita numerosi sequel, film, fumetti, digressioni sul brand S.H. Non è solo marketing, il gioco della Konami ha contaminato l’immaginario con una prepotenza tale, che ora è parte delle icone fantastiche (e spirituali), dal 900 al nuovo millennio.
Nota bene: mi riferisco al videogame Silent Hill 1 e 2 in parte al 3, sui film e gli altri episodi occorrerebbe un ulteriore digressione, quindi è bene circoscrivere il campo.
Perché l’esperienza di questo gioco è unica? In cosa differisce dalle varie ambientazioni di zombi, licantropi e case infestate?
SH è uno stile di vita.
E incredibilmente, in maniera inconscia, lo abbiamo attraversato tutti.
Ego(t)ismo, bramosia di sè, desideri mutati in allucinazioni, gli stessi divorati dalle illusioni, la continua-morbosa fragilità del confine tra bene e male, il coraggio di affrontare il giudizio, la ricerca forsennata dell’io (protagonista e colpevole), tutto è emanazione dei recessi dell’anima, di colui che la percorre.
E’ il compiacimento del proprio inconscio, che occupa creature misteriose, denti e artigli, nessuna buona intenzione.
Le dinamiche sono quelle del “survival horror”, l’atmosfera richiama un’esoterismo cristiano-antico, superbamente “made in japan”.
L’happy ending non è assicurato, che rende -come nella vita- tutto molto eccitante.
Superata la collina, la città: in gioco è la vita di un uomo, non solo: si vince (o si perde) il purgatorio, l’inferno, un istante di paradiso. Silent Hill assomiglia ad un freddo inverno, insieme alla nebbia, l’io congelato è perso; il suono di una sirena avverte che bisogna correre, nascondersi. In strada presenze magiche e pericolose.
Unico e sublime. (continua)